CLEMENTE PISCITELLI E LA QUESTIONE DELLE TERRE INCOLTE

CLEMENTE PISCITELLI E LA QUESTIONE DELLE TERRE
INCOLTE IN PROVINCIA DI CASERTA NEL SECONDO DOPOGUERRA

di Olindo Isernia

L’avvocato Clemente Piscitelli (1888-1954), figura di spicco, dapprima, nel periodo tra le due guerre, del Partito Popolare in Terra di Lavoro e, poi, nell’immediato periodo repubblicano, della Democrazia Cristiana (ricoprì la carica di presidente dell’Amministrazione Provinciale di Caserta e, alcuni anni più tardi, quella ancor più prestigiosa di senatore), ebbe una parte attiva nello svolgimento della lotta per l’assegnazione, in provincia di Caserta, delle terre incolte alle cooperative di contadini che ne facevano richiesta, svolgendo anche per non poche di esse l’importante funzione di consulente legale.

Sull’importante questione andò, tra l’altro, pubblicando, su diversi periodici e giornali, tutta una serie di articoli, nei quali è possibile cogliere la forte sensibilità sociale con cui egli guardava ai bisogni che provenivano dal mondo contadino del Casertano.

In particolare, in un suo lungo articolo, apparso sul numero 223 del 18 settembre 1948 de Il Domani d’Italia, di cui, in questa sede, ci occuperemo, puntualizzava con grande chiarezza quale, a suo giudizio, doveva essere l’interpretazione della legge in questione e stigmatizzava, nel contempo, i criteri con cui, nelle sue valutazioni, stava procedendo l’apposita Commissione provinciale ai fini delle assegnazioni.

Va detto, infatti, che, poiché, i terreni incolti erano individuabili nella provincia, in maggior parte, nelle grandi estensioni di pascolo naturale, la conflittualità si concentrava essenzialmente tra i contadini disoccupati, organizzati in cooperative, che ne reclamavano la disponibilità e i proprietari e i relativi allevatori affittuari, questi ultimi rappresentati dalla potente Associazione degli allevatori, che, al contrario, contestavano la qualità di terreno incolto che si voleva attribuire al pascolo naturale. Destava, quindi, non piccola preoccupazione l’orientamento che in tal senso andava sempre più rafforzandosi all’interno della Commissione, secondo cui era da escludersi che potessero essere considerati incolti tutti quei “terreni a pascolo naturale messi a servizio di un determinato numero di bestiame”, che, nel nostro caso, era costituito prevalentemente da bufali, in quanto davano “un reddito altissimo per la produzione di latticini pregiati (mozzarelle), e del fieno tanto abbondante che la provincia di Caserta ne fa[ceva] larga esportazione”. Era, infatti, evidente che l’applicazione su larga scala di un simile criterio avrebbe reso in gran parte vana l’aspettativa delle numerose cooperative di contadini della provincia di vedersi finalmente assegnare una sufficiente porzione di terra da coltivare.

Piscitelli contestava questo criterio che si basava esclusivamente su produttività e reddito, tagliando fuori ogni altra ben più importante considerazione umana e sociale. Per l’esponente democristiano un simile ragionamento “fila[va] benissimo, ma con la logica dello speculatore”. Era noto a tutti e “con assoluta precisione” che, su un piano strettamente speculativo, “un ettaro di terreno dei “Mazzoni di Capua” in servizio di un’azienda bufalina dà[va] un reddito netto annuo non inferiore alle lire duecentomila” e che nessun’altra coltura poteva dare un simile risultato. Il fatto era, però, che lo spirito della legge sulle terre incolte “si preoccupa[va] non del reddito netto dell’agrario e dell’allevatore, ma dell’aumento della quantità dei prodotti della terra e della necessità di un lavoro ai disoccupati”.

Per Piscitelli era “straordinario” che la Commissione avesse fatto sostanzialmente proprie le tesi dell’Associazione degli allevatori, anche perché, sottolineava il Nostro, era questa presieduta dal “dottissimo” presidente del Tribunale, dott. Maria, che, quale “profondo conoscitore della dottrina tomistica”, meglio di chiunque altro poteva “insegnare quale è[ra] la giustificazione e lo scopo della proprietà privata nella concezione cristiana e cattolica della vita sociale”. Il richiamo non era casuale, perché, per Piscitelli, la questione della classificazione e dell’assegnazione delle terre incolte andava decisa proprio alla luce del concetto cristiano di proprietà, intesa “come diritto ad usare l’oggetto di essa nella maniera più vantaggiosa non per il proprietario, ma per la società”, con l’esclusione, in questo modo, di qualsiasi diritto di abusarne. Il nodo da sciogliere era, perciò, se a prevalere doveva essere la fame del contadino disoccupato oppure l’interesse egoistico dei proprietari dei Mazzoni e degli allevatori, per i quali, naturalmente, non valeva la pena mettere a coltura intensiva il terreno, che, tenuto a pascolo, assicurava un reddito netto assai maggiore, anzi risultava addirittura “nocivo”, “se per raddoppiare la quantità dei prodotti, occorre[va] quadruplicare la spesa di manodopera, e così distribuire ai lavoratori assai più di quello che è[ra] l’aumento della produzione”.

Spiaceva dirlo, ma per Piscitelli “la Commissione e l’insigne presidente Maria”, trascurando tali aspetti della questione, si erano mostrati incapaci di cogliere non solo il valore “morale, sociale, umano”, che era sotteso alla legge sulle terre incolte, ma anche quello “economico”, che pure appariva chiaro a chi si fosse soffermato a riflettere che “la economia [anda]va riferita alla collettività e non al singolo”. Infatti, egli argomentava, “i beni si strappano alla natura con il lavoro ed il complesso di tutti i beni prodotti, si voglia o non si voglia, va distribuito a tutti gli uomini e la difficoltà della distribuzione è in ragione inversa della quantità dei beni prodotti”. Ne discendeva, pertanto, ad un’attenta valutazione, che “per l’economia il flagello della disoccupazione è[ra] altrettanto grave, ed anche più di quanto non lo […] [fosse] sul terreno umano e morale: perché – è[ra] ovvio – ogni operaio che non lavora[va] è[ra] una quantità di produzione in meno”. Due milioni di disoccupati, quanti ne contava in quegli anni del secondo dopoguerra l’Italia, erano altrettanti fratelli che soffrivano la fame, ai quali la società, in una maniera o in un’altra, era costretta a provvedere (problema morale ed umano); ma essi, “sotto l’aspetto economico, […] [erano anche] bocche che grava[va]no sulla produzione complessiva, che è[ra] minore di tanto quanto è[ra] il lavoro non utilizzato”, per cui, in un modo o in un altro, attraverso le imposte, la stampa di carta moneta, la generosità degli abbienti, i due milioni di disoccupati contribuivano ad abbassare il tenore di vita di tutti. Sennonché, paradossalmente, all’interno della Commissione, sarebbe stato proprio il rappresentante dell’Ispettorato agrario provinciale (“mi si dice – scriveva Piscitelli – ma io stento a crederci”) ad osservare, “in conformità delle direttive generali del Ministero”, che “un preminente interesse nazionale ed economico […] impone[va] di lasciare i pascoli, per la necessità di mantenere, anzi sviluppare l’allevamento del bestiame”.

Piscitelli, a questo punto, confutava la pretesa che l’allevamento brado fosse “una necessità economica” e faceva rilevare come “da noi non esiste[va] una produzione di bestiame e di latticini nemmeno lontanamente paragonabile con quella delle plaghe a coltura intensiva”. Prendendo, quindi, in considerazione le richieste degli allevatori locali che reclamavano per ogni capo di bestiame un ettaro di terreno fresco, (capace, cioè, di colture ortolizie), e quasi il doppio di terreno asciutto, (coltivabile, cioè, a cereali), argomentava che non occorreva essere degli “specialisti in agricoltura” per sapere che “nel terreno fresco, un medicaio […] [poteva] dare sei tagli”, il che significava che poteva “alimentare un numero di animali sei volte maggiore di quello che […] [poteva] il prato naturale” e che nel terreno asciutto il rapporto sarebbe stato almeno di uno a tre. Se questa era una verità indiscutibile, concludeva Piscitelli, l’opera dell’Ispettorato agrario (e del Ministero) non doveva “favorire la cristallizzazione del pascolo brado”, ma, al contrario, suo compito era quello di indirizzare le cose in modo da giungere “rapidamente all’integrale soppressione del pascolo naturale nei terreni suscettibili di coltura intensiva, e ciò anche ai fini dell’incremento zootecnico”.

Occorreva, pertanto, concludeva il suo articolo Piscitelli, una attenta e ponderata riconsiderazione dell’intera materia da parte di chi aveva “il grave compito di applicare la legge”, per “trarne gli immensi vantaggi che essa [..] [poteva] dare”; mentre fino a quel momento “sembra[va] che, senza volerlo, la legge (nella Campania) […] [fosse] stata elusa, se non sabotata”.