CASERTA – (padre Antonio Rungi) Sacerdoti sempre più al centro della cronaca e dell’informazione, anzi sono essi stessi ad utilizzare gli strumenti di comunicazione sociale, oltre che il pulpito (oggi ambone) per trasmettere al grande pubblico i propri pensieri e le proprie attività. In questo tempo anche per i sacerdoti c’è un’urgenza di comunicare se stessi, confessarsi, di essere sinceri e trasparenti, quasi si fosse alla trasmissione il “Grande Fratello”.
Don Sante Sguotti, il parroco di Monterosso, ha avvertito la necessità di fare questa comunicazione dall’altare del suo status di padre e noi rispettiamo quello che ha fatto, anche se altri luoghi sono deputati a simili confessioni. Anche i sacerdoti si stanno adeguando al criterio del “che male c’è?” ovvero del tutto legittimo e del tutto possibile e fattibile, senza più regole.
Ognuno che compie una determinata azione è chiamato a rispondere in prima persona su di essa. Se i nostri comportamenti si addicono al nostro stato di vita, va bene; altrimenti è necessario cambiare aria e ministero se non rispondono più a criteri fondamentali o alle scelte liberamente fatte quando, come ad esempio, si è diventato prete con i doveri annessi.
Nessuno dei preti viene costretto a fare il prete, anche dopo pochi giorni o molti anni dalla loro ordinazione sacerdotale. Negli ultimi anni sono moltissimi i sacerdoti che hanno chiesto la dispensa per la riduzione allo stato laicale per motivi personali, tra cui quelli affettivi o relazionali con l’altro sesso, compresa la presenza in alcuni casi di uno o più figli generati nel tempo con la propria “convivente”.
Arriva il tempo in cui pressati dagli eventi o perché la coscienza incomincia a spingere versa la trasparenza e la verità, che avviene ciò che è capitato a don Sante e non perché volesse minare la validità del celibato dei preti, ma semplicemente per uscire fuori da un’ambiguità che per un ministro di Dio, che parla agli altri di verità, di rettitudine non è assolutamente permesso. Se oggi si tende a legittimare comportamenti morali non confacenti allo stato sacerdotale, questo è perché la cultura nella quale viviamo è permissiva al massimo e sostiene un relativismo morale non solo per i fedeli laici, ma anche per alcuni pastori della chiesa, che sanno ben nascondere le personali fragilità, spesso svolgono una doppia vita, sono attaccati in modo eccessivo ai beni materiali e al mondo. Inoltre, sempre frequentemente manifestano una vita incolore, senza impegni seri, passivi e lavativi, oppure con una pluralità di attività che fanno smarrire anche i più saldi e ravveduti sacerdoti con anni di esperienza e di preghiera alle spalle.
Non ha senso essere prete, marito e padre. Non è il popolo di Dio a legittimare la moralità degli atti, ma le regole che ognuno liberamente accetta nel momento in cui sottoscrive davanti a Dio, alla propria coscienza, davanti alla Chiesa il patto d’amore esclusivo con il Signore, mediante la scelta del sacerdozio e con essa quella del celibato, ovvero della castità. Chi non ce la fa a mantenere i patti per tutta la vita deve cambiare strada senza fare clamore, né contestazioni, né rivendicazioni.
Il sacerdote con una vita celibe vissuta con gioia e maturità umana costituisce soprattutto per i giovani un forte richiamo verso i valori alti della vita. Un sacerdote cattolico spostato non sarebbe un sacerdote a tempo pieno secondo quando da molti secoli la Chiesa ha deciso in merito al celibato dei preti, avendo come scopo fondamentale quello di fare di ogni ministro dell’altare un vero uomo del sacro, pur nel rispetto dell’umano.
Corriere di Caserta 26 agosto 2007