OLINDO ISERNIA
L’inserimento in gran numero di elementi meridionali nei reggimenti dell’esercito italiano di stanza nelle province continentali dell’ex Regno delle due Sicilie, per combattere il brigantaggio, dovette, ad un certo punto, cominciare a procurare quanto meno un po’ di apprensione alle autorità civili e militari, responsabili della pubblica sicurezza.
Per quel che riguarda Terra di Lavoro, agli inizi della primavera del 1862, insieme con i sempre più assillanti problemi di ordine pubblico, il prefetto di quella provincia dovette occuparsi con tempestività del ripetersi di alcuni preoccupanti episodi, che avevano per protagonisti un gruppo di militi appartenenti all’11° di Linea, avvenuti nel corso degli spostamenti da Capua a Sessa.
Segnalazioni in tal senso gli erano giunte, alla fine di marzo, da diversi comuni della provincia. Il comandante della Guardia nazionale di Pignataro, in un suo rapporto[1], aveva fatto conoscere quanto era capitato ad un suo luogotenente, D. Pasquale De Simone, che, con altri suoi amici, era stato fermato dalla retroguardia dell’11° di Linea, in marcia per raggiungere Sessa, «che voleva obbligarli a gridare viva Francesco 2°». Al loro rifiuto erano stati ricoperti di «villanie», «fino a gettargli de’ sputi in volto». Aggiungeva, inoltre, che non si era trattato di un caso isolato, poiché «simili avvenimenti si […] [erano]verificati in persona di altri naturali di quì (sic)».
A sua volta, il comandante della Guardia nazionale di Capodrise trasmetteva una dichiarazione dell’assessore comunale Vincenzo Rao[2], che, «sulla strada Capua-Sessa», era stato anche lui costretto a fermarsi dallo stesso distaccamento militare e a pronunciare, sotto minaccia, il solito grido inneggiante al re Borbone. Alcuni militi di quel distaccamento erano, poi, «montati sulla vettura che conduceva l’indicato assessore» ed avevano cominciato a lamentarsi della loro condizione, dicendosi «stanchi de’ cattivi trattamenti che ricevevano nell’esercito, da essi chiamato piemontese» e aggiungendo che «avevano fatto tra loro una congiura, che tutti si sarebbero uniti a Chiavone o ad altri Capi-bande e che in pochi giorni avrebbero ricondotto Francesco 2° a Napoli».
Scene più o meno simili si erano verificate allorché la colonna militare era giunta «al luogo dov’erano parecchi lavoranti alle strade nuove dipendenti dell’appaltatore Giordano», che furono costretti, «pure con violenza», ad inneggiare a Francesco II[3]. Come pure eguale sorte era toccata ad alcuni abitanti di Calvi[4].
Riferendo contemporaneamente al Ministero della Guerra ed al generale La Marmora, il prefetto, al riguardo, specificava che i soldati che si erano resi protagonisti di tali fatti, «al loro accento parevano appartenenti a queste provincie meridionali, e più specificamente, alle Calabrie». E ciò non poteva destare meraviglia, dopo che «purtroppo tali elementi, o come soldati sbandati o come reclute, […] [venivano] in vaste proporzioni sparsi nei Reggimenti qui stanziati» con la conseguenza di procurare molti e gravi inconvenienti «per la [loro] triste condotta» e «per frequenti diserzioni»[5].
Se il prefetto si limitava genericamente ad appellarsi alle autorità superiori per i provvedimenti necessari, più drastico, in proposito, era il sindaco di Calvi, Pasquale Nucchi, che, ad un certo punto della sua corrispondenza, giungeva a scrivere: «Voglio credere che quella truppa non fosse di soldati piemontesi, ma piuttosto di soldati borbonici mischiati co’ primi, che corrotti e demoralizzati sotto il caduto governo, e incapaci di emenda meglio sarebbe stato di farne stoppacci di cannoni che annetterli a disonorare le fila dell’esercito italiano»; e, in conclusione, aggiungeva: «[…] da questi fatti il partito borbonico, che freme, riceve maggiore impulso a sollevarsi »[6].
Sulla base degli accadimenti denunziati dal prefetto, il Ministero della Guerra, come da comunicazione del Ministero dell’Interno, inoltrata al funzionario , si affrettò a prendere «gli opportuni concerti col Signor Generale La Marmora» allo scopo di impedire «il rinnovamento di altri fatti simili o peggiori», con l’adozione anche di «qualche misura generale riguardo ai militari napoletani incorporati nei reggimenti stanziati nelle loro provincie native»[7].
Che episodi simili a quelli denunciati dal prefetto non andavano minimamente sottovalutati, trovava particolare fondamento nella considerazione degli stretti legami, che intercorrevano tra essi ed il fenomeno delle diserzioni dalle fila dell’esercito regolare, che, proprio in questo periodo, era andato intensificandosi, e tra quest’ultimo ed il brigantaggio. Si è già, in precedenza, accennato alle intenzioni di quei militari di abbandonare il proprio reggimento, per andare ad ingrossare la banda di Chiavone, con il rischio che il loro esempio contagiasse anche altri. Ma, va detto, che a spingere alla diserzione le giovani reclute meridionali operavano con profitto veri e propri agenti del Borbone.
Tracce, in tal senso, sono rinvenibili anche nelle carte di archivio riguardante la provincia di Terra di Lavoro. In particolare è interessante riferire su quanto avveniva, in proposito, in quello stesso mese di marzo, a Maddaloni, cittadina a pochi chilometri di distanza dal capoluogo, dove, erano all’opera, per incoraggiare la diserzione, alcuni «soldati de’ Cannonieri di Marina», che a tale scopo, con varie promesse, avvicinavano e cercavano di convincere i militari che facevano parte della truppa colà stanziata a lasciare l’esercito. Il loro arresto era stato reso possibile, come riferiva il delegato di P.S., grazie alle confessioni fatte al suo tenente dalla recluta Berardinelli, che raccontò di essere stato avvicinato da uno di loro, che con promesse varie e l’assicurazione di una paga giornaliera, aveva cercato di indurlo a disertare e a passare dalla sua parte[8]. Già prima dell’arrivo dei quattro marinai, nell’opera di convincimento alla diserzione tra le reclute si era particolarmente distinto il sacerdote Alfonso Lerro, arrestato dalla Questura di Napoli «con un incartamento di persone arrolate» e, trasferito, poi, a disposizione del potere giudiziario, nel carcere mandamentale di Maddaloni, dove rimase, però, per pochi giorni, per essere stato posto in libertà da quel giudice Marzano[9], che, come scriveva al prefetto il maggior generale Villarey, dalla pubblica voce era ritenuto «come uomo avverso al Governo, il quale mette facilmente in libertà quegli individui i quali sono accusati di mene reazionarie»[10].
Per arginare il fenomeno delle diserzioni era stato adottato il più drastico dei rimedi, la fucilazione, pur nella consapevolezza dei contraccolpi negativi, che tale procedura produceva «nel pubblico». Troppo urgente appariva la necessità di ricorrere a tale misura, oltre che per una questione di disciplina tutta interna all’esercito, anche per gli stretti legami, come si è accennato, che essa aveva con il brigantaggio.
Casi di sconcerto tra le popolazioni in seguito all’applicazione nei confronti di chi disertava della pena capitale dovettero essere, comunque, piuttosto frequenti anche nella provincia di Terra di Lavoro e a quanto risulta, l’autorità militare non mancò di prestarvi la necessaria attenzione e di fornire, a giustificazione, gli opportuni chiarimenti. Nel caso della fucilazione del soldato Biagio Lauro, che, nel giugno del 1862, aveva disertato dall’8° Reggimento Fanteria di stanza a Rossiello (Foggia), grande fu l’impressione, come riferiva quel sottoprefetto[11], provocata da quell’esecuzione nel circondario di Nola, di cui il giovane era originario. Del caso si interessò lo stesso generale d’Armata, La Marmora, che, in una sua missiva[12], informava il prefetto di Caserta che sin dallo scorso inverno le diserzioni, avendo assunto delle proporzioni così notevoli da richiedere i più energici provvedimenti, e che «mentre venivano richiamate a memoria de’ Signori Comandanti le Truppe le prescrizioni vigenti sull’impiego della fucilazione da applicarsi ai soli individui colti in flagranza di brigantaggio, si ordinava che il massimo rigore fosse usato coi disertori dell’Esercito». Pertanto, la fucilazione del Lauro, spiegava La Marmora, non fu che la «conseguenza di una misura generale adottata nell’interesse della disciplina dell’esercito poiché è ben constatato ch’egli era un disertore dell’8° Reggimento Fanteria. D’altra parte vi erano a suo carico tutte le apparenze che lo designavano come dedito al brigantaggio»; «sembra pertanto – concludeva – che l’avvenuta fucilazione, essendo conforme a prescrizioni in precedenza emanate, non possa essere biasimata».
Saggio già pubblicato sul periodico Osservatorio Casertano (aprile 2011)
[1] Archivio di Stato di Caserta (ASC), Prefettura (Pref.), Gabinetto (Gab.), busta (b.) 9, fascicolo (fs.) 61 (si cita secondo la vecchia collocazione).
[2] Ivi. Tra le carte tale dichiarazione non è stata rinvenuta, ma il suo contenuto è sintetizzato dal prefetto di Caserrta nella relazione da lui inviata al Ministero della Guerra ed al generale La Marmora, in data 28 marzo (ivi).
[3] Relazione del prefetto di Caserta al Ministero della Guerra, 28 marzo 1862, cit.
[4] ASC, Pref., Gab., b. 9, fs. 65, il sindaco di Calvi al prefetto di Caserta, 31 marzo 1862.
[5] Relazione del prefetto di Caserta al Ministero della Guerra, 28 marzo 1862, cit.
[6] Il sindaco di Calvi al prefetto di Caserta, cit.
[7] ASC, Pref., Gab., b. 9, fs. 61. Il Ministero dell’Interno al prefetto di Caserta, 7 aprile 1862.
[8] Ivi, fs. 60. Il delegato di P.S. di Maddaloni, Gennaro Cenni, al prefetto di Caserta, 22 marzo 1862. così sintetizzava il discorso che il marinaio aveva rivolto al Berardinelli: «abbiamo cavalli, denaro, armi e munizioni, noi siamo quattro Marinai venuti qui in Maddaloni ad arrolare reclute come si fa in tutte le parti, e dandogli tanto al giorno dal perché dobbiamo ammazzare i soldati Piemontesi che sono al deposito ed ancora i Carbonari borchesi (sic)». I quattro erano stati rimessi all’Autorità giudiziaria (ivi, il delegato di P.S. di Maddaloni al prefetto di Caserta, 27 marzo 1862) con l’imputazione di eccitamento alla diserzione «fatto a soldati delle Reali Truppe qui stanziate, e di cospirazione, avente per iscopo il massacro delle medesime truppe e de’ Liberali ancora, per abbattere il presente Governo e ripristinare la caduta dinastia».
[9] ASC, Pref., Gab., b. 9, fs. 60. Il delegato di P.S. di Maddaloni al prefetto di Caserta, 24 marzo.
[10] Ivi, Il Villarey al prefetto di Caserta, 23 marzo 1862. Da un verbale allegato alla corrispondenza del 24 marzo del delegato di P.S., cit., risulta che il Lerro era indicato come uno dei più in vista personaggi reazionari di Maddaloni. Egli, era stato arrestato una terza volta, in seguito alle accuse avanzate nei suoi confronti dal disertore Giovanni Genovese, dopo la sua cattura (ibidem).
[11] Sullo sconcerto provocato, nel circondario di Nola, sulla popolazione dalla fucilazione del disertore Biagio Lauro, e sui legami tra diserzione e brigantaggio, è significativo quanto scriveva il sottoprefetto di Nola nel suo rapporto al prefetto di Caserta, 22 dicembre 1862 (ASC, Pref., Gab., b. 9, fs. 63).