OLINDO ISERNIA
Di esposti e ricorsi alle autorità superiori, anonimi oppure regolarmente sottoscritti da uno o più firmatari, confezionati allo scopo di mettere in cattiva luce e di gettare discredito sull’avversario, che si intendeva colpire, si fece un discreto uso, nel corso dell’Ottocento, anche in provincia di Caserta e nel suo capoluogo.
Tra i notabili della Caserta ottocentesca, uno di quelli maggiormente colpiti da tali denunzie fu probabilmente Costantino Parravano[1], che si distingueva per la sua poliedrica attività di amministratore pubblico, di professionista e di musicista e compositore.
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In un periodo particolarmente concitato della vita amministrativa cittadina, dovuto alla divisione ed alla forte contrapposizione tra i due schieramenti presenti in Consiglio comunale[2], allorché occupava il Parravano la carica di assessore, fu inoltrato direttamente al ministro degli Interni un ricorso non firmato contro di lui, nel quale lo si accusava di condividere i principi dell’Internazionale socialista.
L’accusa, che sarebbe risultata immediatamente incredibile ed allo stesso tempo risibile al giudizio di chi ben conosceva il Parravano, preoccupò, invece, non poco il Ministero, che, allarmato da quel riferimento all’Internazionale, che evocava ricorsi a sistemi terroristici ed incendiari, si affrettò a richiedere dettagliate informazioni al prefetto della provincia. Questi, da parte sua, con sollecitudine si affrettò a rassicurare il Ministero. Scriveva in riscontro, in data 26 ottobre 1873[3]: «[…] posso assicurare che il Cav. Costantino Parravano è uno degli attuali assessori; egli è ben lontano dalle idee dell’Internazionale che il ricorrente falsamente gli attribuisce» ed aggiungeva che «è così pauroso che fuggirebbe le mille miglia lontano non dalle fiamme, ma dal semplice odor di petrolio, nel quale lo pseudonimo lo vuole immerso». Riconosceva, invece, che si trattava di una persona ambiziosa: «Ch’egli possa ambire la carica di sindaco non mi fa meraviglia, perché giovine d’ingegno ed alquanto ambizioso, ma ha sbagliato la strada perciocché nell’intento di risultar consigliere si associò, come altri al Bitetti, abbenché ora siesene all’intutto straniato».
Il mutamento di campo, da uno schieramento all’altro, era dunque alla base del ricorso. Il prefetto non mancava, in effetti, di sottolinearlo: «Il ricorso come è facile rilevare è scritto da qualcuno della fazione opposta, ma per questa parte – tornava a rassicurare il ministro – l’E.V. può essere sicuro che se Parravano ha un lato censurabile, non è certamente [personaggio da] appartenere all’Internazionale».
Va tutt’altro che escluso che l’ispiratore del ricorso «pseudonimo» potesse essere stato il notaio Luigi Bitetti, che era l’esponente principale di uno dei due raggruppamenti di consiglieri comunali, che, in quel periodo, non godeva delle simpatie del prefetto di Caserta e dello stesso Ministero dell’Interno. Il ricorso era, probabilmente, la risposta al tradimento, che nei confronti suoi e della sua parte aveva compiuto il Parravano, che veniva ripagato con gravi allusioni politiche sul suo conto, che, sebbene false, avrebbero potuto danneggiarlo nelle sue aspirazioni di scalata alla massima carica amministrativa cittadina per i dubbi e i sospetti, che sollevava sulla sua condotta politica.
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Veniamo ora ai ricorsi, non anonimi, inoltrati contro il Parravano, che, questa volta, tendevano a colpirlo nella sua carriera e professione di farmacista. E’ da rilevare che, tra i firmatari, troviamo, come vedremo, nuovamente un Bitetti, a conferma di una rivalità e di un’inimicizia tra le due famiglie, che, a quanto sembra, doveva essere dura a morire.
I ricorsi in questione, in numero di due, erano stati inoltrati al rettore della Regia Università degli Studi di Napoli, Dumbini, che, oltre ad inviare i documenti originali al prefetto, con preghiera di restituzione, ne sunteggiava il contenuto in apposita corrispondenza a lui diretta[4]. Il Parravano, per essere autorizzato a sostenere «come vecchio esercente» gli esami finali di farmacia, aveva presentato due documenti, «uno di suo padre», a quella data ancora in vita[5], «attestante che dal 1858 cioè pel non interrotto periodo di anni 23, trovavasi nella propria farmacia in qualità si assistente»; ed un secondo «documento di codesta Giunta Comunale», che ugualmente attestava lo svolgimento da parte sua di tale funzione di assistente nella farmacia paterna «dal 1858 a questa parte»[6]. Per effetto di tale documentazione, continuava il rettore, il Parravano fu ammesso ai relativi esami «nella piena condizione di vecchio esercente».
Nel frattempo, però, sopraggiungevano i due esposti «contro la ammissione ottenuta dal Sig. Parravano». Nei reclami si asseriva che «costui non aveva mai esercitato farmacia, ed è[ra] solo un maestro di musica» e si allegava un atto notorio legale «firmato da varii cittadini di costì per corroborare quanto si afferma[va]». Da parte sua, Costantino Parravano, dopo che venne a conoscenza dei reclami contro di lui, si era affrettato ad esibire «istanza documentata con la quale intende[va] combattere i suoi avversari»[7]. A quel punto al povero rettore, che, per precauzione, aveva provvisoriamente sospeso la concessione fatta al Parravano, non restò, come si è visto, che rivolgersi al prefetto della provincia, «perché con le sue autorevoli informazioni» lo ponesse in condizione «di conoscere la verità dei fatti»[8].
Per dare certo riscontro a quanto richiestogli dal rettore dell’Università napoletana, il prefetto dispose una serie di indagini capillari, volte, in modo particolare, ad identificare chi fossero i numerosi firmatari dei ricorsi ed a quale scopo fossero stati approntati. Dei trentatré sottoscrittori soltanto tre risultarono del tutto sconosciuti. Di tutti gli altri emerse, in linea generale, la scarsa affidabilità e/o moralità. Giovinastro, scioperato, fannullone, vagabondo, di condotta irregolare oppure equivoca, chiacchierone e di carattere leggiero, ed ancora poveraccio, nullatenente,straccione, truffatore erano i termini affibbiati alla maggior parte di loro. Si trattava per lo più di impiegati precari, piccoli commercianti, artigiani, garzoni e giovani di bottega, che vivevano generalmente un’esistenza misera e incerta. Non mancava, in verità, qualche ufficiale in pensione, perfino qualche accanito borbonico e tre notai, di cui, però, due, professionalmente, oltremodo squalificati (uno era stato incarcerato due volte per falsità, un altro condannato a tre anni sempre per falsità) ed il terzo era un incapace (è definito, tourt court, imbecille, ma onest’uomo)[9]. Né uno dei primi firmatari, il farmacista Giuseppe Bitetti, godeva, sempre secondo le informazioni prese, di particolare credito. Anzi l’opinione, che di lui si aveva in città era «cattivissima», essendo tenuto in conto di «un imbroglione, camorrista e uno scroccone». Inoltre, era «facilissimo a minacciare non solo, ma a scendere a vie di fatto» ed era, infine, giunto perfino a simulare «un furto nella farmacia», riportandone una denunzia all’autorità giudiziaria[10].
Tirando le fila di tutti gli elementi arrivati in suo possesso, in considerazione che diversi firmatari erano commessi, dipendenti oppure amici del Bitetti e qualche altro di altri due farmacisti, Gadola e D’Errico, e che la quasi totalità dei sottoscrittori era, altresì, costituita da individui di nessuna fede ed affidabilità, il prefetto, nella lettera di risposta al rettore, giungeva alla conclusione che «i casi avanzati contro di lui [Parravano]» erano dettati «da astio ed interesse personale. Infatti – continuava – i promotori dei medesimi sono dei farmacisti»[11]. Quanto alla presenza di poche «persone oneste» tra i firmatari, era giustificata con la supposizione che esse erano state indotte a ciò «non spontaneamente»[12]. D’altro canto, faceva intendere il prefetto al rettore che «il Cav.r Costantino Parravano è persona distintissima e molto stimata in questa città per la sua intelligenza e per l’abnegazione con la quale si è sempre prestato a diversi ufficii pubblici a lui affidati»; ed era descritto come dotato d’ingegno «versatilissimo» e fornito di profonda e varia cultura, che spiegavano, a suo dire, «facilmente come Egli pur coltivando con amore e successo l’arte musicale, è stato assistente del padre nell’esercizio della farmacia, e siasi segnalato per operosità e conoscenza di leggi amministrative nel disimpegno della carica di amministratore comunale»[13]. Ad inficiare, poi, l’insinuazione dei ricorrenti che il Parravano ben di rado si vedeva in farmacia, il prefetto teneva a precisare che la preparazione dei medicinali era dal Parravano eseguita «in casa e non in farmacia», non mancando, infine, di far valere tutto il peso di quanto, in proposito, aveva certificato non solo la Giunta comunale, ma avevano attestato anche non pochi egregi cittadini casertani, quali Fabbrocini, Salvatores, Corcione, De Lillo, Maria ecc.[14].
Le informazioni trasmesse dal prefetto al rettore dell’Università, togliendo ogni fondamento di verità e di credibilità ai due ricorsi presentati contro di lui, consentirono al Parravano di essere ammesso regolarmente agli «esami finali di farmacia», superati brillantemente qualche tempo dopo, come risulta da un suo biglietto autografo, indirizzato a «Ill.mo Sig. Comm.», da identificare senza alcun dubbio nella persona del prefetto. Scriveva il Parravano: «Ill.mo Sig. Comm. Ecco la grata novella. Sono stato approvato col massimo dei punti su tutte le materie. Ciò prova anche una volta il mio lungo tirocinio nella farmacia paterna. Questa notizia riuscirà certamente gradita a Lei che mi ha date tante prove di affetto. La saluto con la sua Signora e mi dico suo aff.mo servo, Costantino Parravano»[15].
Saggio già pubblicato sul periodico febbraio-marzo 2012 dell’Osservatorio Casertano (febbraio-marzo 2012)
[1] Costantino Parravano nacque a Caserta, il 25 novembre 1841, da Nicola, originario di Itri, e Concetta Rosiello. Nei suoi circa sessantaquattro anni di vita (morì a Caserta il 25 febbraio 1905) si segnalò per la molteplice ed intensa attività svolta in diversi settori. Fu, infatti, amministratore comunale (1870-1888) e farmacista come il padre, presidente della Camera di Commercio, a partire dal 1879, ed, inoltre, apprezzato compositore e musicista. Tra le sue composizioni, che non mancarono di riscuotere l’approvazione del pubblico di allora, vanno ricordate l’Isaura di Firenze, Colpa e castigo e la Ginevra di Monreale. Su di lui cfr. ora, A. Giordano, Cultura ed impegno civile di Costantino Parravano, in “Quaderni” dell’Associazione Biblioteca del Seminario, Civitas Casertana, n. 5 (1999), pp. 133-148.
[2] Cfr. Olindo Isernia, Borghesia casertana nell’Ottocento. La famiglia Leonetti, Caserta 2006, pp. 30-38.
[3] Archivio di Stato di Caserta (ASC), Prefettura (Pref.), Gabinetto (Gab.), inventario II, busta (b.) 264, fascicolo (fs.) 851.
[4] ASC, Pref.,Gab., inv. II, b. 244, fs. 693. La corrispondenza è in data 2 marzo 1882.
[5] Morì il 26 dicembre 1882.
[6] «L’altro documento – continuava il rettore – è di codesta giunta Comunale attestante che dal 1858 a questa parte il Sig. Costantino Parravano di anni 40 trovavasi nella farmacia di suo padre Nicola nella qualità di assistente, e con piena soddisfazione del pubblico».
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, Le informazioni prese sul conto dei firmatari dei ricorsi sono riportate su dei fogli a parte. In essi sono registrati, oltre al farmacista Bitetti,, di cui si dirà a parte, Donato Porzio: ufficiale a riposo e poi scrivano straordinario presso l’Intendenza di Finanza, «un borbonico sfegatato» ed «amico del Bitetti»; Francesco Gatti, un «truffatore specialmente in affari di leva» ed anche immorale; il notaio Francesco Campanile: era «un imbroglione», ed era stato incarcerato due volte per «falsità»; Andrea Comune, anche lui notaio, di Santa Barbara: «un imbecille», «ma un onest’uomo»; De Vita Francesco: ufficiale a riposo, frequentatore abituale della farmacia Bitetti, «un disperato di nessuna importanza»; Salvatore Adderio: ricevitore di lotto in Roccamonfina, un ozioso; Tommaso De Filippis: ufficiale a riposo, «un borbonico di dubbia condotta», uno straccione; Gaetano Santoro, originario di Casagiove, era notaio, ma fu poi condannato a tre anni di carcere per falsità; Vincenzo Guidotti: orefice, un vagabondo e «parente di Bitetti»; Pasquale Falcone: ricevitore del lotto, nullatenente, viveva «miseramente col meschino guadagno che gli dà il suo impieguccio», ma non era di cattiva condotta; il macellaio Alfonso Iorio: un ex ammonito, che aveva riportato diverse condanne per ferimento; Michele De Luca: giovinastro di condotta non tanto regolare e garzone del barbiere Francesco Dell’Aquila; Francesco Dell’Aquila: barbiere, «in paese non gode tanto di buona opinione in materia di moralità»; Antimo Pascarella, «un giovinastro di condotta molto equivoca», figlio del soprannominato Testa di Ferro, cacciato di casa dal padre «come discolo»; Lorenzo Criscuoli: un fannullone di dubbia fama; Pietro Cardone: pittore, figlio di carcerato (il padre espiò la pena del carcere per furto qualificato, un poco di buono; Gaetano Benedetto: ex guardia di P. S. per cattiva condotta, ozioso; Aversano Luigi: «un chiacchierone e di carattere leggiero»; Vincenzo Rossi: futuro farmacista e uomo dabbene; Tucci Luigi: negoziante di generi coloniali ed amico del farmacista Gadola, ma nulla di male si poteva dire sul suo conto; Francesco Della Valle era: scrivano del notaio Bitetti, definito un giovinastro; Almerico Deidier: figlio di un furiere borbonico, anche lui un giovinastro ozioso e scioperato, che viveva alle spalle del padre; Coriolano Saccone: giovane della farmacia D’Errico, molto amico di Bitetti, un giovinastro senza importanza come suo fratello Vincenzo; Pietro Donato: uno scioperato, che «vive meschinamente del suo mestiere di orefice», sfrattato dalla sua bottega per morosità; sconosciuto era risultato Antonio Landi; Ferdinando Finelli, gestore dell’«industria di un’Agenzia di prestiti sopra pegno», sostanzialmente un usuraio di condotta equivoca; Luigi Bianchi: fratello del notaio, viveva miseramente, già giovane della farmacia Gadola; De Nicola Salvatore: era un poveraccio, senza possidenza alcuna; Muletti Antonio: non identificato come Nicola Montelebon.
[10] Ivi, il prefetto di Caserta al rettore della Regia Università degli Studi di Napoli, 10 marzo 1882, cit.
[11]Ibidem.
[12]Ibidem.
[13]Ibidem.
[14]Ibidem. Tra le carte del fascicolo è conservato un biglietto, destinato al prefetto, scritto a matita sicuramente da qualcuno di questi notabili cittadini (la firma è illeggibile) del seguente tenore: «Caris.mo Comm. Sono io proprio un testimone che Costantino Parravano fra gli altri uffici à fatto il farmacista. Vi raccomando quindi il fatto suo assai assai […]».
[15]Ivi.