Il 20 aprile 1864 il prefetto di Napoli trasmetteva al questore della medesima città un documento, in copia, nel quale erano impartite, «dai Borbonici da Roma», dettagliate istruzioni, rivolte ad estendere sollecitamente una rete di Comitati e a conferire ad essi un’adeguata organizzazione[1]. In caso di autenticità, il contenuto del documento giunto nelle mani dell’autorità prefettizia, dimostrerebbe come, a distanza di quasi quattro anni dalla perdita del Regno, i sostenitori del Borbone fossero tutt’altro che rassegnati ad accettare la nuova realtà politico-istituzionale, che si era affermata in Italia e puntassero a dare nuovo slancio e rinnovata vitalità alla lotta contro il novello Stato unitario[2].
I Comitati erano distinti in centrali, secondari e sussidiari. I primi andavano localizzati nelle «metropoli» di ciascuna provincia, compreso Napoli, mentre quelli secondari dovevano trovare sede in ogni quartiere dell’ex capitale e in ogni «città rimarchevole di distretto». In tutti gli altri comuni sarebbe dovuto, invece, sorgere, a seconda della loro «maggiore o minore vastità», un Comitato sussidiario «o semplicemente un Capo Parte».
Tra i diversi ordini di Comitati era stabilita una stretta gerarchia. Direttamente dal «Supremo Consiglio di Roma» sarebbero dipesi i Comitati centrali e da questi, a loro volta, i Comitati secondari. Contatti diretti con Roma sarebbero stati ammessi soltanto nei casi urgenti. In tre oppure in cinque membri era fissato il numero dei componenti di ciascun Comitato, di cui avrebbe dovuto far parte anche un cassiere. Era, inoltre, specificato che, dove fosse stato possibile, uno dei componenti avrebbe dovuto essere «un ufficiale di grado elevato a Capo d’Azione».
Finalità religiose avrebbero dovuto far da schermo ai veri scopi dei Comitati. Era, infatti, espressamente detto che «l’atto di accettazione o di formazione», con le relative sottoscrizioni, avrebbe dovuto essere espresso nel modo seguente: «“Noi qui sottoscritti vogliamo riunirci per adempiere delle pratiche religiose”». Per le comunicazioni era prescritto, ovviamente, l’uso d un linguaggio criptato, dovendo in ogni caso esse avvenire «secondo una scrittura cifrata».
L’attività di ciascun Comitato centrale, secondario, sussidiario e di ciascun Capo Parte avrebbe dovuto tendere, quali loro principali obiettivi, a raggranellare «le fila della propria giurisdizione» e a curare «di averne delle nuove», facendo proseliti «specialmente ne’ forti, ne’ quartieri, negli ospedali, nelle prigioni». Un impegno particolare, poi, si sarebbe dovuto profondere, «indefessamente», «nel sedurre Milizie Nazionali e Regolari ed Impiegati di qualsiasi Uffizio», come pure nel provvedere ad ingrossare, unire e a fornire di armi «le bande armate» e nel formare «depositi di armi e munizioni». Si sarebbero dovuti, altresì, cercare di «richiamare i pervertiti, promettendo impunità di colpe, ricompense» e mettere in atto tutte quelle iniziative, provocando tumulti, facendo mute dimostrazioni con cartelli, bandiere, lanciando proclami su «fatti di maggior momento», capaci di animare «i nostri» e sgomentare «gli avversari».
Sarebbe toccato, infine, all’Ufficiale capo d’Azione, «mercé i suoi subalterni», il compito «organizzare militarmente la gente del proprio Comitato dipendente».
Saggio già pubblicato sul periodico Osservatorio Casertano (giugno 2012)
[1] Archivio di Stato di Napoli, Questura, Gabinetto, fascio 11.
[2] L’allarme sui tentativi da parte dei filo-borbonici di mettere su una rete di Comitati era stato lanciato dal Ministero dell’Interno , di cui era ministro il Peruzzi e sottosegretario Silvio Spaventa, che aveva diramato, a firma di quest’ultimo, in data Torino, 26 febbraio 1864, una circolare ai prefetti nella quale si riassumevano le caratteristiche dei Comitati, che si stava tentando di organizzare da parte borbonica, «nella speranza di prossimi avvenimenti» e con l’intenzione di accrescere il numero dei suoi aderenti. Carte e documenti in proposito erano stati sequestrati a Catanzaro (ivi) .